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Gorgia da Lentini, città della Sicilia, è di poco più giovane di Protagora, nacque tra il 484-483 a.c. è rimasto nella storia come uno dei più abili retori di tutti i tempi. Secondo Diogene fu allievo di Empedocle. Compì viaggi in tutte le principali città greche, fu inviato come ambasciatore dalla sua città ad Atene nel 427 a.c.. Tra i suoi discepoli ebbe Isocrate e Crizia. Concluse la sua vita a Larissa in Tessaglia pare ad oltre 100 anni, quando nella pace della vecchiaia decise di smettere di mangiare.

Egli ha composto molte opere di queste celebre è L’encomio di Elena e il trattato Sul non essere o Sulla natura di cui ci rimane un estratto grazie a Sesto Empirico. In questo particolare frammento Gorgia si fa portatore di tre tesi: l'essere non è, ovvero non esiste una verità; se anche c'è qualche verità non è conoscibile; se anche qualche verità fosse conoscibile non sarebbe comunicabile.

La prima tesi è così esposta:

ammesso che qualcosa esista, esiste soltanto o ciò che è o ciò che non è, ovvero esistono insieme e ciò che è e ciò che non è. Ma né esiste ciò che è, come dimostrerà, né ciò che non è, come ci confermerà; né infine, come anche ci spiegherà, l’essere e il non essere insieme. Dunque, nulla esiste. E invero, il non essere non è; perché, supposto che il non essere sia, esso insieme sarà e non sarà; ché in quanto è concepito come non essere, non sarà, ma in quanto esiste come non esistente, a sua volta esisterà; ora, è assolutamente assurdo che una cosa insieme sia e non sia; e dunque, il non essere non è. E del resto, ammesso che il non essere sia, l’essere non esisterà più; perché si tratta di cose contrarie tra loro; sicché se del non essere si predica l’essere, dell’essere si predicherà il non essere. E poiché l’essere in nessuno modo può non essere, così neppure esisterà il non essere. Ma neppure esiste l’essere. Perché se l’essere esiste, è o eterno o generato, oppure è insieme eterno e generato; ma esso non è né e terno, né generato, né l’uno e l’altro insieme come dimostreremo; dunque l’essere non esiste. Perché se l’essere è eterno (cominciamo da questo punto), non ha alcun principio. Poiché ha un principio tutto ciò che nasce; ma l’eterno, essendo per definizione ingenerato, non ha avuto principio. E non avendo principio, è illimitato. E se è illimitato, non è in alcun luogo. Perché se è in qualche luogo, ciò in cui esso è, è cosa distinta da esso; e così l’essere non sarà più illimitato, ove sia contenuto in alcunché; perché il contenente è maggiore del contenuto, mentre nulla può esser maggiore dell’illimitato; dunque l’illimitato non è in alcun luogo. E neppure è contenuto in se stesso. Perché allora sarebbero la stessa cosa il contenente e il contenuto, e l’essere diventerebbe duplice, cioè luogo e corpo; essendo il contenente, luogo, e il contenuto, corpo. Ma questo è assurdo. Dunque l’essere non è neppure in se stesso. Sicché se l’essere è eterno, è illimitato; se è illimitato, non è in alcun luogo; e se non è in alcun luogo, non esiste. Ammessa dunque l’eternità dell’essere, si conclude all’inesistenza assoluta. Ma neppure può esser nato, l’essere. Perché se è nato, o è nato dall’essere, o dal non essere. Ma non può esser nato dall’essere; perché in quanto è essere, non è mai nato, ma di già è; né può esser nato dal non essere, perché ciò che non è, neppure può generare alcunché, per la ragione che il generante deve di necessità partecipare di una qualche esistenza. Sicché l’essere non è neppur generato. Analogamente, neppure può esser l’uno e l’altro, cioè eterno e generato insieme; perché questi termini si escludono a vicenda; e se l’essere è eterno, non è nato; e se è nato, non è eterno. E dunque, se l’essere non è né eterno, né generato, né ambedue insieme, l’essere non può esistere. D’altronde, se è, o è uno, o è molteplice: ma non è né uno né molteplice, come si dimostrerà; dunque l’essere non è. Perché, dato che sia uno, dev’essere comunque o quantità o continuità; o grandezza, o corpo. Ma allora, qualunque esso sia di queste cose, non è più uno: perché se è quantità si dividerà, se è estensione si scinderà. Similmente, concepito come grandezza sarà divisibile; se poi come corpo, sarà triplice: ché avrà lunghezza, larghezza e altezza. D’altra parte è assurdo affermare che l’essere non sia nessuna di queste proprietà; dunque, l’essere non è uno. Ma neppure è molteplice: perché se non è uno, neppure può essere più, dato che la pluralità è somma di singole unità; per cui, escluso l’uno, è escluso anche il molteplice. Resta così dimostrato che né l’essere, né il non essere esistono. Che poi neppure esistano ambedue insieme, è facile a dedursi. Perché ammesso che esista tanto l’essere che il non essere, il non essere s’identificherà con l’essere, per ciò che riguarda l’esistenza; e perciò, nessuno dei due è. Infatti, che il non essere non è, è già convenuto; ora si ammette che l’essere è sostanzialmente lo stesso che il non essere; dunque, anche l’essere non sarà. E per vero, ammesso che l’essere sia lo stesso che il non essere, non è possibile che ambedue esistano; perché se sono due, non sono lo stesso; e se sono lo stesso, non sono due. Donde segue che nulla è. Perché se l’essere non è, né è il non essere, né sono ambedue insieme, né, oltre queste, si può concepire altra possibilità, si deve concludere che nulla è.

 Egli non intende che nulla esiste ma che non è riconducibile al vero di cui parlano le metafisiche cosmologiche ed in particolare di cui parla Parmenide. https://media.tacdn.com/media/attractions-splice-spp-674x446/0b/27/82/84.jpg In particolare non esiste una struttura dell'essere affermabile e pensabile nei termini logici e ontologici, se la si afferma si cade nelle contraddizioni in cui sono caduti i predecessori di questa tesi.

Inoltre afferma Gorgia che se anche esistesse l'essere, una verità incontrovertibile, non potremmo comunque conoscerla perché per conoscerla bisognerebbe che il nostro pensiero fosse un'immagine esatta della realtà, ma non è così, noi non possiamo che pensare l'immaginario, ovvero il falso cioè l'inesistente.

Ed infine afferma che se anche l'essere, la verità, fosse conoscibile non sarebbe comunicabile a parole perché le parole sono una cosa diversa dalla realtà e non sono corrispondenti ad essa. Tale prospettiva porta Gorgia a un marcato agnosticismo e scetticismo metafisico. Secondo Gorgia l'uomo è impotente rispetto all'essere e alle strutture del reale. La filosofia di Gorgia si configura come una sorta di nichilismo conoscitivo e ontologico. Egli è il primo a mettere in discussione la metafisica occidentale così come poi faranno gli empiristi moderni come David Hume.

Gorgia in modo più radicale rispetto a Protagora non riconosce nemmeno il principio dell'utile e si affida esclusivamente alla retorica e al potere del linguaggio: le affermazioni migliori sono quelle che vengono espresse meglio, la verità dunque sta solo nella forma e non nella sostanza. Mentre per Protagora il discorso da preferirsi era quello più utile, per Gorgia il discorso da preferire e quello più bello, più avvinciente e più persuasivo.

Nell’Encomio di Elena https://media02.blogo.it/cineblog/a/a99/Stasera-in-tv-su-Rete-4-Troy-con-Eric-Bana-e-Brad-Pitt-3.jpg Gorgia si cimenta nella difesa di Elena di Sparta dall’accusa di essere stata la causa della guerra di Troia per aver seguito Paride. https://4.bp.blogspot.com/-ZzPBBdg-qLY/V1KZid0YQxI/AAAAAAAAEbw/b_1AbkUVT2kao2n8H5NFxaUKCFtyfQkegCLcB/s1600/guerra%252Bdi%252Btroia%252Bin%252Bbreve.jpg

Questa narrazione ci mostra l’abilità di Gorgia nell’uso della retorica. Da questo testo si evince che Gorgia padroneggiava i principali generi della retorica: quello illustrativo, la capacità di contestualizzare l’argomento nel presente; quello giudiziario ovvero far riferimento all’accusa e alla difesa rispetto a un fatto passato; quello deliberativo che si riferisce al consigliare o lo sconsigliare una determinata condotta futura.

È decoro per lo Stato una balda gioventú; del corpo, bellezza; dell’ animo, sapienza; dell’ azione, virtú; della parola, verità. Il contrario di questo, disdoro. E uomo e donna, e parola ed opera, e città e azione conviene onorare di lode, chi di lode sia degno; ma sull’ indegno, riversare vergogna; poiché è parimenti colpevole e stolto sia biasimare le cose lodevoli, che lodare le riprovevoli. È invece dovere dell’ uomo, sia dire rettamente ciò che si addice, sia confutare  il contrario; e dunque è giusto confutare i detrattori di Elena, donna sulla quale concordi si affermano e la testimonianza di tutti i poeti, e la fama del nome, divenuto simbolo delle sfortunate vicende.

Pertanto io voglio, svolgendo il discorso secondo un certo metodo logico, liberare dall’ accusa lei cosí diffamata, e dopo aver smascherato i suoi detrattori e svelata la verità, far cessare l’ ignoranza.

(…..) E perciò, varcato ora, col discorso, il tempo d’allora, mi rifarò allo scopo del discorso propostomi, ed esporrò le cause per le quali era naturale avvenisse la partenza di Elena verso Troia.

Infatti, ella fece quel che fece o per cieca volontà del Caso, e meditata decisione di Dei, e decreto di Necessità; oppure rapita per forza; o indotta con parole, o catturata da Eros.

http://nextews.com/images/1d/ac/1dacc2247de00ed2.jpg Se è per il primo motivo, è giusto che s’incolpi chi ha colpa; poiché la provvidenza divina non si può con previdenza umana impedire. Naturale è infatti non che il piú forte sia ostacolato dal piú debole, ma il piú debole sia dal piú forte comandato e condotto; e il piú forte guidi, il piú debole segua. E la Divinità supera l’ uomo. Che se dunque al Caso e alla Divinità va attribuita la colpa, Elena va dall’ infamia liberata.

https://c8.alamy.com/compit/a0ch12/rilievo-del-prigioniero-essendo-trascinato-via-in-catene-arco-di-settimio-severo-foro-romano-roma-a0ch12.jpg E se con la forza fu rapita, e contro legge violentata, e contro giustizia oltraggiata, è chiaro che del rapitore è la colpa, in quanto oltraggiò, e che la rapita, in quanto oltraggiata, subí una sventura. Merita dunque, colui che intraprese da barbaro una barbara impresa, d’ esser colpito e verbalmente, e legalmente, e praticamente; verbalmente, gli spetta l’ accusa; legalmente, l’ infamia; praticamente, la pena. Ma colei che fu violata, e della patria e dei suoi cari privata, come non dovrebbe esser piuttosto compianta che diffamata? ché quello compí il male, questa lo patí; giusto è dunque che questa si compianga, quello si detesti.

https://cdnx.ilsussidiario.net/wp-content/uploads/2018/07/13/cicerone_giustiziaR400-439x300.jpg Se poi fu la parola a persuaderla e a illuderle l’ animo, neppur questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi cosí: la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà. E come ciò ha luogo, lo spiegherò. La poesia nelle sue varie forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l’ ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l’ anima patisce, per effetto delle parole, un suo scuotimento, a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone straniere. Ma via, torniamo al discorso di prima. Dunque, gli ispirati incantesimi di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena. Aggiungendosi infatti, alla disposizione dell’ anima, la potenza dell’ incanto, questa la blandisce e persuade e trascina col suo fascino. Di fascinazione e magia si sono create due arti, consistenti in errori dell’ animo e in inganni della mente. E quanti, a quanti, quante cose fecero e fanno credere, foggiando un finto discorso! Che se tutti avessero, circa tutte le cose, ricordo delle passate, coscienza delle presenti, previsione delle future, certamente il medesimo discorso non sarebbe di eguale efficacia, qual è invece per quelli, che appunto non riescono né a ricordare il passato, né a meditare sul presente, né a prevedere il futuro; sicché nel piú dei casi, i piú offrono consigliera all’ anima l’ impressione del momento. La quale impressione, per esser fallace ed incerta, in fallaci ed incerte fortune conduce chi ad essa si affida.

Cosa ci impedisce di credere che Elena sia stata trascinata da lusinghe di parole, e cosí poco di sua volontà, come se fosse stata rapita con violenza? Cosí constateremmo il potere della persuasione, la quale, pur non avendo l’ apparenza dell’ ineluttabilità, ne ha tuttavia la potenza. Infatti un discorso che abbia persuaso una mente, costringe questa mente a credere nei detti ed a consentire nelle azioni. Perciò chi ha persuaso, in quanto ha esercitato una costrizione, è colpevole; mentre chi fu persuasa, in quanto costretta dalla forza della parola, a torto vien diffamata. E poiché la persuasione, congiunta con la parola, riesce anche a dare all’ anima l’ impronta che vuole, bisogna apprendere anzitutto i metodi dei divinatori ed indovini, i quali sostituendo ipotesi a ipotesi, distruggendone una, costruendone un’altra, fanno apparire agli occhi della mente l’ incredibile e l’ inconcepibile; in secondo luogo, i dibattiti oratorii di pubblica necessità [politici e giudiziari], nei quali un solo discorso non ispirato a verità, ma scritto con arte, suole colpire e persuadere la folla; in terzo luogo, le schermaglie filosofiche, nelle quali si rivela anche con che rapidità l’ intelligenza facilita il mutar di convinzioni dell’ opinione.

C’è tra la potenza della parola e la disposizione dell’ anima lo stesso rapporto che tra la funzione dei farmaci e la natura del corpo umano. Come infatti certi farmaci eliminano dal corpo certi umori, e altri, altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; cosí anche dei discorsi, alcuni producono dolore, altri piacere, altri paura, altri ispirano coraggio, altri infine, con qualche persuasione perversa, avvelenano l’ anima e la stregano. Ecco cosí spiegato che se ella fu persuasa con la parola, non fu colpevole, ma sventurata.

https://www.lacooltura.com/wp-content/uploads/2018/02/Cupid.jpg Ora la quarta causa spiegherò col quarto ragionamento. Che se fu l’ amore a compiere il tutto, non sarà difficile a lei sfuggire all’ accusa dello sbaglio attribuitole. Infatti la natura delle cose che vediamo non è quale la vogliamo noi, ma quale è propria di ciascuna; e per mezzo della vista, l’ anima anche nei suoi atteggiamenti ne vien modellata. Per esempio, se l’ occhio scorge nemici armarsi contro nemici in armature di bronzo e di ferro, subito l’ anima si turba, sicché spesso avviene che si fugge atterriti, come fosse il pericolo imminente. (…..)

E non di rado alcuni, alla vista di cose paurose, smarriscono all’ istante la ragione che ancora possiedono: tanto la paura scaccia e soffoca l’ intelligenza. Molti poi cadono in vani affanni, e in gravi malattie, e in insanabili follie; a tal punto la vista ha impresso loro nella mente le indelebili rappresentazioni delle cose vedute. E di simili esempi di cose terribili molte ne potrei ancora portare. D’altro lato i pittori, quando da molti colori e corpi compongono in modo perfetto un sol corpo e una sola figura, dilettano la vista. E figure umane scolpite, figure divine cesellate sogliono offrire agli occhi un attraente spettacolo. Sicché certe cose per natura addolorano la vista, certe altre l’ attirano. Ché molte cose, in molti, di molti oggetti e persone inspirano l’ amore e il desiderio. (Che se dunque lo sguardo di Elena, dilettato dalla figura di costui (Paride ndt.), inspirò all’ anima desiderio d’amore, qual meraviglia? Il quale amore (Eros ndt.), se, in quanto dio, ha divina potenza, come potrebbe un essere umano respingerlo o resistergli? e se poi è un’infermità umana e una cecità della mente, non è da condannarsi come colpa, ma da giudicarsi come sventura; venne infatti, come venne, per agguati del caso, non per premeditazioni della mente, e per ineluttabilità d’amore, non per artificiosi raggiri.

Come dunque si può ritener giusto il disonore gettato su Elena, la quale, sia che abbia agito come ha agito perché innamorata, sia perché lusingata da parole, sia perché rapita con violenza, sia perché costretta da costrizione divina, in ogni caso è esente da colpa?

Ho posto riparo con la parola all’infamia d’una donna, ho tenuto fede al principio propostomi all’ inizio del discorso, ho tentato di annientare l’ ingiustizia di un’onta e l’ infondatezza di un’opinione; ho voluto scrivere questo discorso, che fosse a Elena di encomio, a me di esercizio dialettico. (I Presocratici, Laterza,1990)