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La grande intuizione di Newton riguarda  la gravità, la famosa mela, pare sia stato Newton stesso a narrare la storia della mela (che però non lo colpì in testa). La grandiosa idea di Newton fu quella di ipotizzare che la forza di gravità che attrae i corpi al suolo sia la stessa forza che tiene in orbita la luna. https://3.bp.blogspot.com/-mBqndNO_lE8/WgQS3HN0oeI/AAAAAAAA0eM/Vv4Poa-4_zIM4UDp37p4EZFQ-wk2x7tCwCLcBGAs/s1600/newton.jpg Egli sapeva che la distanza luna terra era di circa 60 raggi terrestri (l’aveva calcolata già Aristarco), e siccome la forza sarebbe dovuta decrescere con il quadrato della distanza, la gravità che agisce sulla terra sarebbe dovuta essere 3600 volte maggiore rispetto alla forza con cui la Terra trattiene la Luna, proprio perché appunto il quadrato della distanza cioè 60 e 3600. Per concludere l’esperimento è però necessario conoscere l’accelerazione dovuta alla gravità terrestre. Da prima Newton si affidò ai dati di Galileo che però erano troppo imprecisi, in secondo luogo la calcolò egli stesso utilizzando il pendolo giungendo alla cifra di 9,8 metri al secondo quadrato. A questo punto fece la proporzione con quella che sarebbe dovuta essere la gravità esercitata dalla Terra sulla Luna e ottenne un valore di 3660 volte più piccolo di quello terrestre, in sostanza, con qualche errore dovuto ai dati che andavano ancora perfezionati, proprio il valore che ci si sarebbe aspettati se l’intuizione principale era corretta. La forza di gravità era dunque la legge che teneva insieme mondo celeste e mondo terrestre. La circolarità dell’orbita, che permette alla Luna di non cadere sulla Terra, è dovuta al fatto che come già affermato da Cartesio e da Galileo i corpi celesti si muovono di moto inerziale rettilineo uniforme ed assommando a questi la forza di gravità si ottiene appunto come risultate un moto più o meno circolare (quanto basta per non farla cadere sulla Terra e quanto basta per non farla scappare via). Questa però non è ancora la soluzione al problema. Infatti le orbite sono ellittiche e rimane ancora da dimostrare che anche per esse valga il fatto che la forza sia inversamente proporzionale al quadrato della distanza. https://encrypted-tbn0.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcT0gyd5t4sBqB9Yx58Hffi_b-QIVPqM5xC60B4oAG1omhIYppDj

Nel 1666 il fisiologo Giovanni Alfonso Borelli formulò l’importante ipotesi che il moto planetario fosse un moto composto, ovvero che esso dovesse essere la risultante di due vettori, uno dato dal moto del pianeta stesso e l’altro da una forza che egli identifico nella gravita. Questa ipotesi era le stessa che aveva immaginato negli stessi anni anche Newton. Tuttavia mentre era relativamente facile dedurre una legge che stabilisse la relazione delle orbite se esse fossero state circolari, non era per nulla semplice dedurla per le orbite ellittiche. L’ipotesi di fondo, tenendo conto dell’ellitticità delle orbite, era che la forza di gravità dovesse essere in una funzione di una qualche potenza dalla distanza per controbilanciare la forza centrifuga in modo tale così che i pianeti si muovessero più velocemente in prossimità del Sole.http://images.treccani.it/enc/media/share/images/orig/system/galleries/NPT/VOL_6/IMMAGINI/moto_01.jpg

Robert Hooke (l’inventore del microscopio) cercò di dimostrare che la risultante di queste due forze che tiene la Luna in orbita intorno alla Terra fosse appunto proporzionale alla distanza, ma non ci riuscì. Questa ipotesi scaturisce direttamente dalla terza legge di Keplero, l’unico che per altro non se ne accorse durante i suoi studi. Oltre ad Hooke e Borrelli, nonché lo stesso Newton anche altri studiosi si accorsero della relazione. Tra vanno annoverati anche Edmund Halley e Christopher Wren.

Nel 1673 Huygens enunciò la legge della forza centrifuga, mostrando che essa variava in base alla lunghezza del raggio e tale variazione era inversamente proporzionale al quadrato del periodo: ma il quadrato del periodo, secondo la terza legge di Keplero, era proporzionale al cubo del raggio; ne conseguiva pertanto che la trazione gravitazionale o forza centripeta, necessaria a bilanciare la forza centrifuga, era uguale al raggio diviso per il suo cubo, cioè al quadrato inverso al raggio

Questa fu la considerazione di Rober Hooke, Edmond Halley e Cristopher Wren nel 1679, ma il problema non era risolto rimaneva da chiarire se ciò potesse valere anche per le orbite ellittiche e di come si esercitava il moto sulle grandi masse.

Robert Hooke all’epoca segretario della Royal Society cerco di sollecitare una corrispondenza con Newton, va ricordato che i due si erano scontrati riguardo alle tesi rivoluzionarie di Newton sulla natura della luce. Con la scusa della riconciliazione Hooke ne approfittava per sottoporre a Newton la sua ipotesi sui moti planetari, essi dovevano essere dati da un moto rettilineo lungo la tangente e da un movimento attrattivo verso il corpo centrale.

Hooke infatti in quell’anno aveva pubblicato un saggio dove proponeva una serie di novità sulle ipotesi relative ai moti planetari. La prima ipotesi sosteneva che tutti i corpi celesti hanno un attrazione o un potere di gravitazione verso i propri centri che non solo attrae tutte le proprie parti, come fa la terra con gli oggetti terrestri, ma anche gli altri corpi che si trovano in prossimità dell’orbita di un pianeta. La seconda supposizione prevede che i corpi continuano a muoversi in modo rettilineo finché non interviene un’altra potenza che ne incurvi la traiettoria. La terza supposizione è che la forza attrattiva di un corpo é tanto più forte quanto più ci si avvicina al suo centro. Queste tesi erano il primo vero tentativo di superare la teoria dei vortici di Cartesio.

La corrispondenza tuttavia non fu fruttuosa per il carattere sospettoso e poco affabile di Newton che addirittura disse ad Hooke che in base alle ipotesi così espresse il moto risultante sarebbe stato un aspirale e non un ellisse. Hooke dimostrò che non era così e che il moto sarebbe stato ellittico e scrisse nuovamente a Newton (fu l’unica volta che riuscì a correggere il suo rivale). Newton continuò a fare obiezioni ad Hooke questo a rispondere. In un’ennesima lettera Hooke svelava quasi tutte le sue carte nella speranza di ottenere delle indicazioni da Newton e anticipa l’idea di una forza proporzionale al quadrato della distanza. Il problema era bilanciare i cambiamenti di velocità e di distanza per ottenere una curva chiusa con gli apsidi (ovvero gli estremi dell’orbita) stabili. L’idea di Hooke era quello di avvalersi della seconda legge di Keplero ovvero che la velocità è inversamente proporzionale alla distanza e della legge dell’inverso del quadrato. Hooks concluse lo scambio di lettere il 17 gennaio del 1680, cercando di sollecitare ancora l’aiuto di Newton, esortandolo a calcolare quale orbita sarebbe derivata da tale ipotesi. https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/0/00/Keplero_ellisse.jpg/370px-Keplero_ellisse.jpg

Newton, non rispose ma accolse la sfida e dopo alcuni giorni dimostro che un corpo che ruota intorno a un centro di forza descrive aree uguali in tempi uguali ovvero la seconda legge di Keplero, ma se ne guardò bene di inviare il risultato a Hooks. Newton dimostrò anche grazie a questa legge un pianeta sottoposto ad una forza che varia con l’inverso del quadrato della distanza descrive un orbita ellittica.

Agli inizi del 1684 i tre scienziati sopra menzionati, Hooke, Halley e Wren, si siano riuniti alla Royal Society per discutere di scienze. Durante l’incontro tra le altre affermazioni discusse venne tirato in ballo da Hooke il fatto che anche per le orbite ellittiche, per quelle circolari ormai era stato accettato e condiviso, valeva la legge di Keplero e di essere in grado di mostrarlo. Halley, che era un grande astronomo (non dimentichiamo che lui riconobbe i diversi passaggi della cometa che oggi ha il suo nome), non gli credette. Da ciò nacque una scommessa sugellata da Wren (che non era da meno degli altri essendo l’architetto della cattedrale di St Paul a Londra): chi avesse risolto l’enigma avrebbe vinto quaranta scellini (poca cosa, diciamo una scommessa simbolica). Ma nessuno dei tre scienziati ebbe una soluzione. Halley nel fra tempo informò Newton della questione. Ma Newton aveva la soluzione! Halley dovette attendere appena un paio di mesi e poi ricevette un articolo scientifico intitolato De motu in cui vi era un elegante dimostrazione che, quando la forza di gravità è inversamente proporzionale al quadrato della distanza, le orbite dei pianeti risultano effettivamente ellittiche. http://www.manuelmarangoni.it/onemind/wp-content/uploads/2017/04/Legge-di-gravitazione-universale-di-Newton.jpg

In realtà Newton aveva fatto ben di più, e nel 1687 lo mostrerà al mondo. Egli aveva dimostrato che le tre leggi di Keplero sono in realtà l’equivalente della formula della gravitazione universale intuita in occasione della mela. Ogni corpo dotato di massa attrae ogni altro corpo dotato di massa con una forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse stesse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. La dimostrazione non era frutto di un’epifania, ma di lunghi e tortuosi lavori che avevano avuto inizio nel 1665 e che erano proseguiti soprattutto dopo le scoperte e le rilevazioni compiute da Hooke. In realtà sarà solo tra il 1684 e il 1687 che Newton preciserà completamente la sua teoria, comprendendo che non è semplicemente il Sole ad attrarre i pianeti, ma che l’interazione è reciproca. http://www.bmscience.net/blog/le-leggi-di-keplero-e-di-gravitazione-universale/

Tuttavia la storia intellettuale non finisce con l’edizione dei Principia del 1687, non solo vi sarà nel mezzo la disputa sul calcolo infinitesimale, ma con l’edizione del 1713 si apre un altro capitolo importante della storia di Newton (e anche uno dei più controversi). Qui è condotta una forte difesa, e un conseguente attacco, rispetto alle posizioni dei cartesiani. Questa edizione è ricordata soprattutto per la frase hypotheses non fingo. Qui Newton respinge al mittente le accuse che lo vedevano sostenitore di una “forza occulta” (la forza di gravità) che sarebbe una proprietà dei corpi. Egli sosterrà con forza che lui si limita a descrivere la gravità, ma si astiene dal formulare ipotesi sulla sua natura intrinseca, perché ciò è estraneo al compito della fisica. Anzi afferma che se si ponessero cause sconosciute, ipotetiche, sulle quali non è possibile compiere esperimenti esse sarebbero la fine del progresso della filosofia naturale. Tale posizione fu fatta propria dai positivisti nell’Ottocento che separavano nettamente l’autentica scienza da possibili spiegazioni dei fenomeni. Ma giustamente è stato notato che in realtà Newton non respingeva le ipotesi in quanto tale, ma solo quelle che sono prese ad hoc, diremmo noi, per giustificare i fenomeni sconosciuti. Questa tesi è ulteriormente avvallata dalla parte dell’ottica dove Newton, anche se in forma di domande, queries, propone una serie di ipotesi da verificare sperimentalmente. Ci ricorda Geymonat che:

Newton comprese molto bene che l’idealizzazione matematica dei fenomeni (la quale comporta sempre in sé qualcosa di ipotetico) è altrettanto importante, per lo scienziato, quanto l’interrogazione della natura. L’essenziale è, secondo lui, che tale idealizzazione non resti uno schema puramente teorico, ma dia luogo a conseguenze verificabili nell’esperienza e quindi possa fungere come guida per l’impostazione delle nostre ricerche

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